Filippo Turetta non merita l’ergastolo, dicono i suoi legali. Non è Pablo Escobar, aggiungono. Gli stessi parlano anche di pena inumana e degradante, di un sistema che non rieduca. Parole che pesano ancor di più come macigni all’indomani della giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Dunque, fermiamoci un attimo: settantacinque coltellate. Settanta. Cinque. Gli avvocati dell’assassino di Giulia Cecchettin ci dicono che non c’è stata crudeltà. E ci dicono che non c’è stata premeditazione nonostante la lista compilata prima di commettere il brutale femminicidio: "Fare il pieno, poi scotch, corde, spugna bagnata e coltello".
Turetta sapeva bene dove voleva arrivare. Eppure, la definiscono "emotività". Settanta coltellate non sono emotività. Sono cancellazione. Sono distruzione. Sono la volontà di eliminare Giulia non solo come persona, ma come pensiero, come ricordo. Sul computer di Filippo c’era una cartella dedicata a lei. Il ragazzo annotava quanto spendeva di benzina per andarla a prendere a casa e per comprarle il gelato. Trascriveva persino quante volte si sedeva accanto a lui all’università. Perché, per lui, Giulia non era una compagna: era un investimento. E quando quell’investimento non ha più funzionato, l’ha eliminata.
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